CONSIDERAZIONI SULLA DOTTRINA DEL PECCATO ORIGINALE SECONDO LA TEOLOGIA ORTODOSSA
Introduzione
Il peccato originale non è un argomento di carattere astratto. Le astratezze si sono imposte nel cristianesimo quando si ha cominciato a concepire la teologia come una scienza lontana dalla vita degli uomini racchiudendola in fredde categorie razionali. Tutto ciò è potuto avvenire perché alla mentalità patristica, particolarmente attenta al dato empirico e all’esperienzialità cristiana, è subentrata la mentalità dei popoli franco-germanici, particolarmente affascinati dalla speculazione mentale-filosofica e metafisica. In tal modo, nel cristianesimo occidentale hanno cominciato ad imporsi le argomentazioni astratte, stimolate da un sapere non più di tipo monastico (rapporto diretto discepolo-maestro) ma universitario (esposizione razionale della questio), dopo essere state lungamente coltivate nell’ambito delle scuole carolinge.
Il pensiero teologico patristico-romano non privilegiava un unico autore ma formulava la dottrina cogliendo da tutti i teologi le migliori intuizioni. Questo procedimento rifletteva la stessa vita della Chiesa che era regolata sinodalmente, collegialmente, non attraverso l’imposizione di un’unica autorità che richiamasse il principio secondo il quale il capo “ha sempre ragione”. Inoltre la correttezza di una dottrina non era verificata esclusivamente con assiomi logici ma attraverso la vita e la prassi dell’intera Chiesa. Il processo non era sempre facile, a volte richiedeva tempo, energie e sofferenze personali. Così i limiti e gli errori di un Padre venivano corretti e la verità veniva integrata ed esposta correttamente attraverso il pensiero degli altri.
Il vero e il falso non erano considerate banalità: la verità permetteva al credente di entrare in contatto con la dimensione divina mentre l’eresia allontanava la persona da questo medesimo contatto. Così il pensiero fuorviante non era rifiutato perché cozzava con dei presupposti logico-mentali (come se l’errore fosse 1+1= 3), ma perché impediva a priori ogni possibile apertura dell’uomo con il divino.
Questo presupposto fondamentale era unito con il criterio “cattolico” della verità. È per questo motivo che la dottrina dell’apokatastasis di Gregorio di Nissa fu rifiutata. Tale dottrina, già sostenuta da Origene, affermava che alla fine dei tempi anche Satana si sarebbe riappacificato con Dio. La lettura “cattolica”, cioè quella lettura che tiene conto di tutti i teologi autorevoli, ha impedito alla Chiesa di aderire al limite di questo Padre. Infatti l’apokatastasis è rimasta un’opinione personale di Gregorio, non si è mai fissata in un dogma di fede.
Quando sulla scena dell’Europa occidentale si affermò il potere politico dei franchi (VIII-IX sec.), si formarono delle scuole teologiche nelle quali si prescindeva chiaramente dal principio “cattolico” di lettura dei testi patristici. Tale procedimento era motivato dall’ignoranza della lingua greca da parte franca ma anche dal voler a tutti i costi imporre la propria parziale interpretazione per accusare la pars orientalis di eresia al fine di legittimare il potere politico e la conquista militare della pars francorum. In tal modo i franchi lessero e aderirono prevalentemente ad Agostino subordinando all’ottica agostiniana ogni altro autore patristico. Il risultato è stato quello d’aver forgiato e amplificato, laddove già sussisteva, un cristianesimo amartiocentrico (dove il peccato si situa al centro della storia della salvezza), giuridico e metafisico. Tale impostazione ha finito per caratterizzare tutto il cammino della teologia occidentale.
Grazie ai franchi le “sottigliezze della logicità” si diffusero sempre maggiormente nelle cattedre teologiche occidentali mentre l’aspetto esperienziale del cristianesimo veniva relegato nell’ambito monastico. La vita cristiana della società finì, allora, per essere regolata da criteri estrinseci (moralismo, legalismo) accompagnati o contrapposti a correnti pietiste che cercavano di temperare il rigore infuso dal razionalismo teologico. Nel tempo in cui questi fenomeni si diffondevano, l’Oriente ortodosso restava fedele alla sua primigenia identità. Tale fedeltà, spesso equivocata come se fosse uno sterile “immobilismo”, ha preservato l’Oriente dalle particolari accentuazioni introdottesi nella dottrina cristiano-occidentale. Ancora oggi il cristiano orientale riferisce la sua fede unicamente ad un rapporto personale con Dio. Gli è completamente estranea una concezione che stringa il cristianesimo nei ceppi della ragione e in “logici” e astratti schemi mentali. Lo stesso dogma, per l’Oriente, non è la fissazione razionale di una verità staccata dall’uomo ma il riflesso di una realtà a lui intimamente legata; conservare intatto il dogma significa, allora, mantenere aperta la porta superando la quale è possibile incontrare l’Ineffabilità divina già su questa terra.
Ignare di ciò, le scuole teologiche franche subirono il fascino della metafisica spostando, come detto, il baricentro del cristianesimo dall’esperienza cristiana all’indagine filosofica, stimolate pure dalla loro insufficiente lettura patristica. Un tema nel quale si ha modo di toccare con mano l’influenza del pensiero franco nel cattolicesimo latino e, quindi, l’estrapolazione e l’assolutizzazione d’un elemento teologico proprio ad un autore della comune tradizione patristico-romana, è quello del peccato originale.
La questione
Prima di ogni cosa non bisogna lasciarsi trarre in inganno da considerazioni estranee alla Sacra Scrittura. È ben nota l’ironia scientista contro chi sostiene l’origine storica dell’umanità in Adamo ed Eva. È il caso di ripetere, con Galileo, che la Scrittura non insegna come sia fatto il cielo ma come si fa per andare in Cielo. Ironizzare sull’esistenza di Adamo ed Eva, quando si parla del peccato originale, è depistante. Per tornare a vedere le cose in modo corretto, si deve considerare Adamo ed Eva per quel che, prima di tutto, sono: il simbolo biblico dell’autonomia contrapposto alla teonomia (=la dipendenza da Dio). Il fatto che i Padri credessero all’esistenza storica di Adamo ed Eva non li ha concentrati su questo particolare per farne un dogma di fede. Essi non avevano la mentalità di chi si schierò contro Galileo! Perciò sono andati subito al cuore biblico del racconto: la disobbedienza dell’uomo a Dio. Questa, tra l’altro, è una prova in più che mostra come la loro attività non fosse dedicata a costruire una filosofia ma a rapportarsi con l’Assoluto. “Ciò che chiedono e danno i Padri è il cambiamento [dell’uomo attraverso la forza] dello Spirito. Se vogliamo accostarli al di fuori di questa realtà, resteranno per noi incomprensibili come scrittori e oggetto di disprezzo come persone”.
La disobbedienza adamitica, dunque, è riscontrabile nella vita di ogni uomo che vuole porsi a misura e centro dell’universo. Come i progenitori dell’umanità anche colui che rivendica la sua autonomia, finisce per mietere analoghe conseguenze. Per questo la Scrittura definisce costui “insipiente” paragonando la sua opera a quella di chi costruisce la casa sulla sabbia.
Giovanni Romanidis nell’opera Il peccato originale secondo san Paolo, sostiene che per l’Apostolo il peccato dei progenitori ha fatto entrare nella creazione il Maligno e con esso la morte. Quello che ogni uomo eredita non è la colpa (come nella tradizione franco-agostiniana) ma una creazione indebolita e schiavizzata al Maligno il quale vive parassiticamente in essa e la tiranneggia con la morte e la corruzione. La causa della morte, della corruzione e del male, non sono attribuibili ad un Dio antropomorficamente adirato contro l’uomo ma al Maligno. Gesù Cristo non è venuto a cancellare una colpa, a pagare un debito a Dio (Anselmo d’Aosta) o a Satana (Origene) ma a liberare l’uomo dall’incubo della morte distruggendo la morte stessa. “Con la morte hai sconfitto la morte” – canta l’Oriente cristiano la domenica di Resurrezione. Se la vita finisse al momento in cui moriamo sarebbe giusto cercare di possedere e godere il più possibile visto che, come si dice comunemente, “ogni lasciata è persa”. La dottrina economica del capitalismo, attraverso la prassi consumista, solletica proprio questa caratteristica dell’uomo decaduto. Distruggendo l’incubo della morte l’uomo viene salvato dal suo ossessivo egoismo. Se crede veramente in Cristo risorto e ne riceve la forza, il cristiano può amare come Dio ama, gratuitamente, senza ricevere nulla in cambio. In tal modo viene ripristinata l’immagine e la somiglianza rovinata dal peccato primordiale. Perciò san Paolo afferma che “se Cristo non è risorto ... è vana anche la nostra fede”.
Il teologo greco Giovanni Romanidis, nell’opera succitata, dimostra che in san Paolo non esiste alcuna affermazione in base alla quale si possa considerare la colpa adamitica ereditaria. Il primo a considerare il peccato originale nei termini moralistici dell’eredità di una colpa è stato sant’Agostino. Tale impostazione nacque nell’urgenza di combattere il pelagianesimo e fu sancita in qualche concilio locale. Terminata l’urgenza l’affermazione avrebbe potuto essere ridimensionata presto se fosse esistita una maggior osmosi tra l’Occidente e l’Oriente europeo. Ciò non avvenne e la posizione si radicò. La situazione si complicò irreversibilmente quando questa lettura fu assunta in toto dalla teologia franco-germanica che, come già accennato, non era in grado di accostarsi “cattolicamente” alla teologia patristica e si rifiutava di farlo. Romanidis osserva che il rifiuto di accostarsi cattolicamente alla teologia patristica nasceva dall’opposizione che i franco-germani nutrivano verso tutto il mondo romano-orientale definito con disprezzo “greco”. L’ignoranza, invece, sussiteva proprio perché essi erano privi delle fonti originali patristiche orientali e non comprendevano la lingua greca.
La teologia scolastica ha ereditato la posizione franco-agostiniana. Su un manuale scolastico di qualche decennio fà leggiamo:
Il peccato di Adamo è passato in tutti i suoi discendenti ... È [una verità che richiede un’adesione] di fede... Il peccato di Adamo è cioè la colpa di origine, non soltanto le conseguenze relative ai beni del corpo e ai beni preternaturali anche dell’anima. Tanto meno solo il cattivo esempio. In tutti i suoi discendenti e cioè in tutti i singoli uomini derivanti da Adamo per generazione.
Si noti che l’affermazione richiede un’adesione di fede ed è quindi vincolante, non è un’opinione come un’altra.
D’altra parte il Concilio di Trento (1545-1563) non è meno categorico:
Se qualcuno dirà che il peccato di Adamo nocque a lui solo e non alla sua discendenza; e che la santità e la giustizia ricevute da Dio non le perdette anche per noi, ma solo per sé stesso; e che, divenuto peccatore, trasfuse nel genere umano la morte e le pene del corpo soltanto, non anche il peccato che è la morte dell’anima, sia scomunicato.
Notasi ancora il carattere vincolante del pronunciamento. Adamo ha trasmesso all’umanità il peccato (che consiste in una vera e propria “colpa”, non solo in una pena quale conseguenza del peccato adamitico). Chi nega ciò è scomunicato!
Il Catechismo di Pio X (1905) dichiara che:
Il peccato originale è volontario, e quindi colpa per noi, solo perché volontariamente lo commise Adamo, quale capo dell’umanità.
Oggi si preferisce “mitigare” questa teologia della colpa per cui si sottolinea, non senza una certa contraddizione con i precedenti testi, che:
Il peccato originale, sebbene proprio a ciasuno, in nessun discendente di Adamo ha un carattere di colpa personale.
Ciò non toglie che altri testi non utilizzino termini più chiaramente tradizionali. In un manualetto di ampia diffusione leggiamo:
Il peccato originale si trasmette per via di generazione naturale ... Tuttavia dobbiamo riconoscere che questa trasmissione di una colpa (non solo di una pena) è un mistero che quaggiù non possiamo comprendere pienamente.
Tale concezione ha contraddistinto tutto l’Occidente. La storia salvifica finisce per essere determinata dal peccato dell’uomo. L’uomo e il suo peccato - non l’amore divino per gli uomini (la philantropia) - finiscono per essere al centro di quest’evento e per condizionarlo. Il Redentore si limita ad essere Colui che ripara un guasto al progetto divino. Già Agostino affermava: “Se l’uomo non fosse andato in rovina, il Figlio dell’Uomo non sarebbe venuto”. Risuona ancora oggi nella liturgia romano-cattolica del sabato santo quel famoso passo del Praeconio paschale (XI sec.) che recita: “O felix culpa! Quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem”.
È evidente che ci troviamo davanti ad una concezione amartiocentrica. Al centro della storia salvifica, invece, esiste la gratuita azione di Dio. In coerenza a ciò, l’Ortodossia crede che Cristo sarebbe comunque venuto poiché se Dio non avesse assunto la carne umana nel Salvatore, l’uomo di ogni tempo non si sarebbe mai potuto divinizzare. Questa prospettiva è fondata, tra l’altro, sulla testimonianza di sant’Atanasio che afferma: “Egli si è incarnato affinché noi ci divinizzassimo...”. La storia salvifica è allora contraddistinta solo dalla philantropia divina. Il dogma dell’incarnazione comporta e significa l’assunzione dell’umanità in seno alla Trinità. È con la gratitudine che deriva da questa coscienza che l’Oriente cristiano canta: “Gloria alla tua condiscendenza, o unico amico degli uomini!”.
La fermezza ortodossa con la quale si riferisce l’incarnazione alla divinizzazione umana non è minore nel caso del peccato originale. L’Ortodossia sottolinea che “in nessun luogo dell’Antico Testamento si fa menzione del peccato che si trasmette ai discendenti come colpa ereditaria, come invece ha affermato la teologia occidentale. Al contrario, l’Antico Testamento non smette mai di sottolineare la responsabilità dell’uomo per le proprie azioni”.
Potremo fare un esempio che mostra ancor meglio la posizione cristiano-orientale: se mio padre dilapida una notevole eredità, il peccato e la colpa di tale azione sono suoi, non li eredito io che, semmai, eredito il fatto di trovarmi senza un quattrino. Eredito le conseguenze di un peccato e di una colpa, non queste ultime. Dal momento in cui l’umanità (Adamo ed Eva) rompe il rapporto con Dio annulla il cammino verso la sua perfezione. Perciò la teologia patristica ha generalmente visto il peccato originale come una malattia e non ha parlato di un’eredità della colpa, ma solo di un’eredità della corruzione e della morte. Ad eccezione di Agostino che contraddistingue amartiologicamente questa dottrina, tutti i padri sono concordi nel vedere in Adamo la causa che ha sottoposto l’uomo e tutta la creazione alla tirannia del Demonio. Infatti, “la dottrina sul peccato originale trovò la sua formulazione e anche la sua terminologia propria [al cattolicesimo] soltanto in Agostino”.
L’interpretazione di Rom 5,12
Il passo su cui si basa la dottrina sul peccato originale è Rom 5,12. In esso si legge:
Come per opera di un solo uomo entrò il peccato nel mondo e con il peccato la morte, così essa si è estesa in tutti gli uomini per la quale (morte) tutti abbiamo peccato (eph’ho pantes emarton).
La prevalente interpretazione patristica è:
attraverso Adamo il peccato è entrato nella creazione (poiché Adamo era parte di essa). Il peccato ha aperto la porta alla morte e quindi al malvagio dominio di Satana che si è parassiticamente introdotto nel creato e nell’uomo (È solo questo quel mistero, che fa esclamare Paolo: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”). Satana regna attraverso la corruzione e la morte, ragion per cui tutti hanno peccato (e continuano a peccare). Cristo, non è venuto con il fine di “smacchiare” l’uomo dalle sue colpe (concezione moralistica) ma con il fine di renderlo partecipe della divinità (“[Io e il Padre] abiteremo in lui e faremo dimora presso di lui”). Dal momento in cui ciò avviene, l’uomo è redento pure dalle sue colpe personali.
L’interpretazione moralistico-agostiniana è:
attraverso Adamo il peccato è entrato nella creazione. Avendo ferito la giustizia divina, il peccato ha richiesto la punizione dell’uomo con la morte e il dominio di Satana (Dio, quindi, è colui che infligge il male!). Tutti gli uomini sono stati puniti perché (eph’ho) tutti hanno ereditato il peccato e la colpa adamitica. La morte di Cristo è dunque necessaria per riparare questa colpa e sollevare l’uomo dal suo peccato.
Si noti che eph’ho grammaticamente significa solo “per cui”, “per il quale” o “per la quale” non “perché” (dioti). Canonizzando la personale interpretazione di Agostino (“In lui tutti hanno peccato quando tutti erano un’unico uomo”), nella maggioranza delle Bibbie occidentali eph’ho deve necessariamente essere tradotto “perché [in Adamo]” in luogo di “per la quale [morte]”. Alcune Bibbie commentano in nota che questo passo è controverso ed è di difficile traduzione. In pratica sotto queste generiche espressioni è sotteso quanto è stato esposto fin’ora.
Conclusioni
Lo sviluppo della scienza storica e dell’analisi esegetica formula dei risultati che tendono ad avvicinarsi sempre di più alle posizioni della Chiesa ortodossa. La stessa filosofia personalistica rifiuta di accettare che una persona possa essere posta in stato di peccato da un’altra per la maggior considerazione in cui è tenuta la dignità e l’autonomia della persona umana. Così, mentre l’Oriente cristiano è fondamentalmente rimasto fedele all’antica Tradizione, l’Occidente è obbligato ad assumere una posizione più sfumata rispetto al suo recente passato per evitare di trovarsi con le spalle al muro costretto ad ammettere d’aver intrapreso un percorso, forse obbligato, ma che lo ha spinto a fare una scelta discutibile all’interno della globale riflessione teologica patristica, elevandola in seguito a dogma.